Allo Joppolo di Patti, “Due” di Giovanni Maria Currò svela una “irripetibile ambiguità psicologica e morale”

Foto Due

Foto DueC’è in “Due”, spettacolo di Giovanni Mario Currò andato in scena allo Joppolo di Patti nell’ambito della rassegna “ScenaNuda”, interpretato dallo stesso autore con Mauro Failla sotto la regia di Roberto Bonaventura, una sorta di archetipo di matrice tutta isolana. Un metaconcetto che affonda le sue radici in certa letteratura impegnata a definire il fondamentale dissidio d’ogni siciliano: “L’oscillazione tra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amore di clausura, secondo che ci tenti l’espatrio o ci lusinghi l’intimità della tana, la seduzione di vivere come un vizio solitario”. L’ambigua ed irrisolta condizione d’insularità mirabilmente descritta dalla penna di Gesualdo Bufalino sembra irrompere con lucida recrudescenza all’interno della scena immaginata da Giovanni Mario Currò. In un luogo e in uno spazio imprecisati, in un’epoca d’indefinita povertà, due fratelli – “Uno” e “Due” – rimangono sospesi in un tempo morto a mezzanotte e tre quarti, oscillando tra la fame e il freddo, geograficamente segregati all’interno di una casa-tana che diventa prigione e rifugio al tempo stesso, a seconda del modo in cui i due fratelli interpretano la propria condizione. “Uno” vorrebbe partire, andare al nord, trovarsi un lavoro e provare a sfondare nel mondo della lirica, lasciandosi alle spalle un passato di abusi e di violenze. “Due” è deciso a restare, ma più per paura che per convinzione. E si ostina a voler riportare in vita alcune lampadine ormai fulminate. Ma dalla morte non c’è resurrezione, almeno in questa vita. Ciononostante la paura di un futuro incerto, il timore di lasciare una condizione di precarietà senza la certezza del miglioramento spinge “Due” ad affidarsi ciecamente alla profezia di un non meglio identificato “babbo bianco” e a convincersi che dall’ostinazione scaturirà il miracolo. I due fratelli rimarranno così sospesi in un tempo senza tempo, bloccati nelle loro rispettive teorie ma incapaci di staccarsi l’uno dall’altro e di seguire ognuno la propria strada. Forse perché “Uno” e “Due” sono semplicemente la stessa persona: “una irripetibile ambiguità psicologica e morale”, calzante metafora di una società meridionale tragicamente ripiegata su stessa.

Staff Filokalòn

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