A cento anni dalla fine della Grande Guerra, riflessione del filosofo Daniele Fazio

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di Daniele Fazio
Il 4 novembre 1918 l’Italia, con l’armistizio di Villa Giusti, decretava la conclusione della propria partecipazione alla Prima guerra mondiale (1914-1918) con la vittoria sull’impero austro-ungarico.

Il Paese era entrato in quella macelleria di uomini che è stata la Grande Guerra con un anno di ritardo rispetto alle altre potenze europee, il 24 maggio 1915. Apparve sin da subito che non si trattava più di una guerra causata da questioni dinastiche o da rivendicazioni di confine. C’era ben altro. Il primo conflitto mondiale fu, su scala planetaria, la prima imponente guerra causata dalle ideologie che, a partire dalla Rivoluzione Francese (1789-1799) e per tutto l’Ottocento avevano imperversato nel continente.

Il mito di “terra e sangue” ingrossava il nazionalismo, mentre i socialcomunisti erano pronti a far scoppiare la rivoluzione. Come ha analizzato lo scrittore tedesco Ernst Jünger (1895-1998), la Prima guerra mondiale fu la manifestazione epidermica di un sostrato più profondo che fece emergere ed esprimere una rivoluzione mondiale.

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I campi di battaglia non vedevano più fronteggiarsi eroi intrepidi che si guardano negli occhi sfoggiando il proprio valore; adesso era il tempo della battaglia dei materiali con l’uomo materiale tra i materiali, ingranaggio di un meccanismo che può essere composto, scomposto e sostituito senza la benché minima rilevanza etica. La morte diventava seriale e il suo simbolo è il milite ignoto, l’uomo che ha versato il sangue ma di cui non importa sapere o men che meno ricordare il nome.

La “vecchia Europa”, incarnata dai cosiddetti imperi centrali, fu sistematicamente messa a ferro e fuoco. Venne imposto il reset di ogni antica istituzione monarchica, livellando tutto su base repubblicana. Effettivamente alle ideologie moderne e, soprattutto alla massoneria internazionale, interessava abbattere finalmente quelle vestigia – sicuramente molto sgretolate, indebolite e tremanti – della tradizione europea che, però, ancora in qualche modo incarnavano, almeno per retaggio, un’idea sacrale del potere politico.

Il richiamo alla pace pronunciato nel 1917 da Papa Benedetto XV (1854-1922) rimase ovviamente inascoltato, così come rinviati al mittente furono tutti i tentativi di stipulare trattati di pace profusi dall’imperatore d’Austria, il beato Carlo d’Asburgo (1887-1922).

All’indomani della guerra, il volto dell’Europa del 1919 era radicalmente cambiato, portando con sé quei germi che da lì a poco avrebbero condotto alla nuova guerra civile ideologica europea e mondiale, la Seconda guerra mondiale (1939-1945). Il mutamento culturale e politico fu immenso. Laddove vi era stato l’impero tedesco subentrò la debolissima Repubblica di Weimar che, da lì a un decennio, fu superata dal nazionalsocialismo.

Là dove vi era stato l’impero austro-ungarico, erede ideale del Sacro Romano Impero – abolito de nomine da Napoleone Bonaparte (1769-1821) nel 1805 –, ora stava una piccola repubblica, quella austriaca, diretta “dipendenza” della Germania, tanto che Adolf Hitler (1889-1945), nel 1938, con l’Anschluss, l’attirerà nei territori del Reich nazista. Dai territori già austro-ungarici nacquero poi Stati nuovi – spesso pensati a tavolino – come la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. Mentre la Polonia tornava indipendente, l’Ungheria perdeva territori a favore di Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania, diventando anch’essa una repubblica.

In Russia, l’idea sacrale del potere era stata divelta già nell’ottobre del 1917, quando, con la rivoluzione, i bolscevichi avevano conquistato il Palazzo d’Inverno, massacrato la famiglia zarista e imposto, con Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov, 1870-1924), l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Ad altre latitudini geografiche e culturali ed ovviamente con una concezione politico-religiosa dello Stato diversa da quella di marca cristiana, crollò anche l’impero ottomano, che, a 623 anni dalla fondazione, venne ridotto, attraverso una serie di eventi, più o meno all’attuale Turchia. Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), leader emergente dei Giovani Turchi, abolì definitivamente il Sultanato e il Califfato, divenendo il primo presidente della repubblica turca.

E così, mentre il Piave mormorava o finiva di mormorare, in Europa i fondamenti della vita di una comunità umana che aveva sfidato i secoli a partire dall’istituzione del Sacro Romano Impero venivano sostituiti. Laddove ancora sussisteva nell’ambito della vita delle comunità civili un riferimento seppur blando a Dio, ora il campo era libero perché si potessero instaurare i nuovi idoli: la razza, la classe, la rivoluzione. I frutti avvelenati sarebbero presto stati serviti con l’ascesa dei totalitarismi e lo scoppio nel nuovo conflitto mondiale.

A cento anni di distanza occorre allora riflettere seriamente per comprendere se evitare ogni riferimento al diritto naturale e alle radici cristiane nella società costituisca un fattore di progresso o sia solo un nuovo modo per annichilire l’uomo.

fonte – www.alleanzacattolica.org

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