“Il fiore più alto del ciliegio” rappresenta uno spaccato storico oltre che uno spaccato di vita.
Il sapiente gioco di flashback e flashforward porta la narrazione avanti e indietro nel tempo senza stacchi eccessivi, poiché il lettore viene accompagnato in maniera ‘indolore’ lungo i vari piani temporali, caratterizzati appunto da una linea non continua, bensì spezzettata e a tratti ciclica. Il romanzo non parte infatti ab origine, ovvero dall’infanzia del protagonista Antonio, ma da un momento di vita quotidiana di lui già adulto, mentre si conduce da subito il parallelo con la vicenda biografica del figlio Roberto.
Significativamente, nel racconto, le piccole cose e gli episodi apparentemente meno rilevanti, rivestono un ruolo importante nello svolgersi della storia, al punto che è proprio uno di questi a dare il titolo a tutto il romanzo. Inoltre, tali momenti narrativi s’inseriscono perfettamente nel contesto storico generale, tratteggiato con dettagli precisi e puntuali: gli anni del terrorismo, Tangentopoli, le scommesse sportive e la piaga del ‘pizzo’ entrano in queste pagine a fare quasi da ordito alla trama, senza appesantirla, ma anzi completandola e dandogli una certa ampiezza di respiro.
Notevoli anche le descrizioni paesaggistiche, quelle dei beni artistici e quelle delle tradizioni, che si presentano al lettore particolareggiate e spesso congiunte a nozioni storiche.
L’impostazione generale del romanzo, così pensata, si presta bene a una rappresentazione di tipo cinematografico, soprattutto quando la narrazione sfocia nel ‘metaracconto’: ad esempio, il passaggio in cui Antonio si accinge a scrivere una biografia su se stesso, progetto che si mostra nei contenuti del tutto similare a quello del romanzo di cui egli stesso è protagonista.
Pur nella varietà delle tematiche trattate, la struttura coerente e ben ordinata de “Il fiore più alto del ciliegio” lascia comunque un posto di rilievo al tema delle radici e del legame con la terra d’origine, alla sofferenza nel doverla lasciare e alla volontà di tornarvi per ricostruire.
In tale ottica, il distacco viene percepito come un arrivederci momentaneo che è non soltanto occasione per osservare le cose a distanza e con più nitidezza, ma anche crescita attraverso il confronto con altre radici, le quali, sebbene estranee alle proprie, si mostrano in grado di far ancorare in chi è lontano il seme della speranza ed il desiderio di cambiamento, fondamenta e frutto del ritorno.
Maria Ilenia Crifò Ceraolo
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